QUESTO È IL ROMANZO
Intervista allo scrittore teramano Massimo Ridolfi a proposito della forma romanzo, in occasione della sua ultima pubblicazione, Angeli, Letterature Indipendenti, 2025.
Che cos’è un romanzo?
Prima di dire cosa è il romanzo, dico che cosa sono la Letteratura e la lettura: la Letteratura e la lettura sono degli strumenti culturali della conoscenza e per questo motivo devono sempre offrire una possibilità di approfondimento, vale a dire un motivo di analisi e studio attenti della società, cioè non devono mai produrre mero oggetto di intrattenimento, neanche in terza battuta; neanche dopo diverse azioni di scrittura e di lettura, perché il testo letterario, propriamente letterario, si sustànzia in due azioni distinte ma dipendenti: scrittura e lettura, ma mentre la prima azione è statuaria, la seconda è invece sempre soggetta a mutazione perché ognuno di noi legge e interpreta il testo letterario a suo modo, e non ce n’è uno uguale all’altro di modo, e questo è il bene supremo dell’esercizio della Letteratura e della lettura perché permette così il rinnovamento del testo a ogni occasione; per questo l’azione del lettore è molto più importante di quella dello scrittore, che ci lascia sempre solo un tentativo di scrittura, anche a pubblicazione avvenuta; per questo allo scrittore e al lettore non è concesso uno stupido intrattenimento.
Ma tornando più strettamente alla tua domanda, il romanzo è una enorme costruzione architettonica. E questa costruzione per realizzarsi necessita di grandi capacità di artigianato. Quindi di fantasia intelligenza pensiero e forza – visione elaborazione organizzazione e allenamento alla fatica. Il romanzo è una grande impresa atletica, quindi anche fisica. Perché la scrittura impegna e stanca non solo la mente ma anche il corpo – deve stancare il corpo scrivere.
Chi è il romanziere?
Il romanziere è un muratore. Nerboruto. Nervoso. Con baricentro basso, in modo da rimanere saldo alla terra. Che ha mani e braccia forti. E forti devono essere le gambe che lo sostengono nella fatica. Dobbiamo quindi immaginare il romanziere come a un muratore che tira su il suo palazzo mattone su mattone rendendolo un luogo abitabile. E in questo palazzo siamo invitati a entrare e a stare. Quindi deve avere porte, scale dalle quali salire e finestre dalle quali affacciarsi a guardare il mondo. È una grande opera di osservazione quella che mette in atto il romanziere.
Quel è lo stato di salute del romanzo oggi in Italia?
Il romanzo oggi in Italia è gravemente ammalato dall’uso della prima persona singolare. Un modo di fare il romanzo ereditato da un cattivo studio della messa in opera del romanzo novecentesco, soprattutto quel modo della seconda metà del secolo scorso. Nessuno si è accorto che alcuni dei grandi romanzi del Novecento, Viaggio al termine della notte e Sulla strada, tanto per fare due esempi esemplari, altissimi e diversissimi, in realtà non sono scritti in prima persona singolare perché a raccontarci gli eventi del romanzo è un personaggio che si pone a tre quarti lasciando al lettore lo spazio utile a guardare quanto accade tra le pagine. Quindi il miglior uso della prima persona, e l’unico possibile a mio parere, è quello proposto da Louis-Ferdinand Céline e Jack Kerouac. Ed è l’unico modo possibile, lo ripeto. L’unico che non annoia. Perché la prima persona singolare, così come la vediamo applicata oggi alla forma romanzo, copre completamente l’opera. Così più che il testo e quello che accade nel testo, vediamo le spalle dell’autore che si pone innanzi al suo scrivere scritto non lasciandoci vedere nulla.
Oggi ci sono romanzieri in Italia?
No! perché nessuno in realtà scrive romanzi oggi in Italia ma racconti annacquati da una lingua piatta, confezionata da cattivi editor e assecondata da cattivi scrittori in cerca di successo. Quindi più che romanzi ci troviamo tra le mani delle scatolette di tonno che sanno tutte dello stesso tonno. Oggi gli scrittori di questi non romanzi si preoccupano di confezionare un testo che risponda ai gusti del pubblico così come l’editore li sintetizza questi gusti. Quindi non si fa letteratura ma moda, prêt-à-porter, casual, un jeans e una maglietta. Allora vediamo e leggiamo donne che raccontano di donne. Le madri delle loro figlie e le figlie delle loro madri. O uomini che raccontano di cronaca. L’ultima moda è quella di uomini che raccontano di donne, soprattutto di madri, e dello sputtanamento delle madri e di intere famiglie. Sputtanare la propria famiglia poi è l’ultimissima moda letteraria italiana, sempre nel dettato modaiolo che vorrebbe denunciare la famiglia cosiddetta tradizionale come disfunzionale, come se fosse possibile convivere senza conflitti in altre forme di vita comunitaria. Insomma, succede alla nostrana letteratura che si fabbricano libri farciti di sciocchezze à la page e li si spaccia per romanzi.
Che cosa manca allora a questi “non” romanzi?
La caratteristica principale di un romanzo è la coralità. Il romanzo mette in scena un’opera corale. Dove la vita degli uomini è interpretata e rivissuta in forma letteraria. Mancano quindi tutti questi testi di coralità. Di personaggi. Di attori che agiscano. Mancano di vita. Mancano di vita perché sintetizzati dalla prima persona, ambiente sterile dove può esistere solo l’Io più stolido e falsificato.
Mancano di una storia?
No!, non è questo il problema. Solo gli scrittori peggiori iniziano a scrivere pensando a una storia da raccontare. Questi testi, oggi spacciati come romanzi, mancano di scrittura. Vale a dire di un modo di fare il testo che lo renda riconoscibile e non legato alla trama. Oggi non leggiamo romanzi, cioè l’opera di un romanziere, ma le vicende dell’autore che, ossessivamente, ci racconta i fatti suoi senza alcun filtro artistico, vale a dire senza arte – senza alcun talento che lo renda capace di distaccarsi dalla biografia per tentare uno slancio universale. Siamo di fronte ad autori ai quali manca il primo ingrediente della ricetta d’arte, vale a dire la fantasia, cioè quella magia che li renda altro da sé, che permette all’autore di mimetizzarsi nel romanzo parcellizzandosi nei suoi personaggi. E questa deficienza, nelle fasi acute, li porta addirittura a scrivere delle vere e proprie cronache biografiche, dei diari riempiti ossessivamente, compulsivamente, senza alcun filtro fantastico, cioè dell’immaginazione. In sintesi, questi non romanzi mancano tutti di una vera lingua letteraria, che sia elaborata partendo dal basso, cioè dal popolo, che l’artista che sa fare arte dello scrivere riproduce dentro un suo proprio codice.
Di chi è la colpa di tutto questo “non” romanzo che, invece, si spaccia in giro per tale allora?
La colpa è sempre del cattivo scrittore. Di colui che scrive e insiste a scrivere senza avere un briciolo di talento. È qui che attecchisce la cattiva editoria, che è interessata solo alla pesca a strascico del lettore di consumo, che troppo spesso è un tipo affetto da voyeurismo. Quello che legge per passatempo seguendo una trama senza preoccuparsi della qualità della scrittura del testo che ha davanti agli occhi, come un guardone appunto, che invece di corpi nudi guarda pagine di libro dove l’autore si denuda senza un briciolo di dignità letteraria. La colpa è solo del cattivo scrittore, che poi si inventa insegnate di scrittura creativa, come se esistesse una sola ricetta per scrivere, quando è vero l’esatto contrario, perché ogni scrittore, se è tale, ha il proprio modo di scrivere, anche posturale, cioè per come si piega sul foglio, se troppo vicino o troppo lontano dal foglio bianco, ed è una qualità non mutuabile: tutto questo rende riconoscibile uno scrittore vero, che sa che non esiste una perfezione nella scrittura, come non esiste in nessun linguaggio dell’arte, perfezione che sarebbe una maledizione, una paralisi creativa, una sterilizzazione appunto; quando, al contrario, sa che sta tutta nella naturale e mai ricercata infezione la riuscita o meno di un libro vero. Scrivere bene, in Letteratura, significa scrivere male. Intendo dire che bisogna riuscire, per fare Letteratura, a dire lo scomodo del vivere vivendo.
E il ruolo dell’editor, di questo personaggio misterioso che pare nascondersi dietro ogni romanzo, che rilevanza ha in tutto questo?
L’editor, cioè colui che collabora con lo scrittore affinché il suo testo si strasformi in libro, può avere un ruolo significativo solo quando non è invasivo. Cioè quando ha talento sufficiente per capire se si trovi oppure no davanti a un libro finito. Se crede di trovarsi davanti a un libro finito, cioè davanti a un testo compiuto e nel quale l’autore crede, allora vorrà dire che i suoi interventi saranno minimi, quasi invisibili. Ma quando invece l’editor non ha questo talento e crede, al contrario, di poter far scrivere a modo suo a uno scrittore il libro che non è stato capace di scrivere, è allora che germina tutta la cattiva editoria italiana che rifornisce il fast-food delle grandi catene librarie.
Qual è il peggior nemico del romanzo, che lo rende oggi in Italia impossibile, a tuo avviso?
Il peggior nemico del romanzo, in questa società dove il grado di attenzione si riduce sempre di più – oramai siamo abbondantemente sotto al minuto; anzi, fatichiamo a stare attenti anche solo trenta secondi di fila –, è la mancanza di pazienza. Non ci si concede più tempo. Si scrive per apparire. Si scrive ai fini della presentazione. Della rappresentazione di se stessi. Oggi rimango sempre più attonito davanti a scrittori, soprattutto giovani ma anche vecchi e decrepiti, che scrivono il loro non romanzo con la presunzione di pubblicarlo qui è ora. Addirittura pretendendo di pubblicare la prima storiella che si è scritta. Ecco, al romanzo, per farsi tale, serve del tempo. Deve macerare tra le foglie del tempo. Deve insaporire. Io invece leggo sempre dello stesso sapore, se riesco a superare le prime venti pagine prodotte da questi non romanzieri. Scrivere un romanzo è davvero un lavoro lungo e faticoso. Certo, è un lavorare fortunato quello dello scrittore, ma anche faticoso.
Che consigli daresti a un giovane scrittore?
Di credere i se stesso e di dedicarsi alla scrittura senza l’ambizione della pubblicazione, che raramente porta al successo, che è sempre falso. Quello che conta di più è scrivere. Con talento vocazione e dedizione. Il lavoro dello scrittore si divide in due grandi momenti, quello della scrittura, dell’atto creativo vero e proprio, che è sempre intimo e quindi personale, e quello della pubblicazione. Sono due momenti ben distinti. Due posizioni differenti e distanti nel tempo. Il primo momento è sempre legittimo e fondativo dell’opera. Ed è solo nell’operare che esiste l’artista non nel pubblicare, che è invece un consegnarsi al mondo; una rinuncia a se stessi è sempre rappresentata nell’atto di pubblicazione, che ti porta a perdere definitivamente ogni possibilità di azione e di controllo sull’opera. Ma quando arrivasse il momento della pubblicazione, lo scrittore deve porsi una ultima, terminale domanda: Ritengo necessario alla conoscenza pubblicare questo testo? Se la risposta è sì, allora si pubblichi. Molto spesso sentiamo raccontare che si pubblicano troppi libri, ma non è così. È importante pubblicare la propria opera se si crede in se stessi e al proprio lavoro di scrittore. È necessario. Poi il mondo sarà colpevole di distrazione se non si accorgesse di ciò che accade nella Letteratura, quindi nel mondo della vita degli uomini. Certo non è possibile seguire tutto e tutti. Ma quell’opera che si è data alle stampe esiste, è disponibile. È con questa ultima azione dello scrivere disponibile nel mondo. Licenziare la pubblicazione di un’opera significa, finalmente, liberarsene.
Quando tempo hai impiegato a liberarti di Angeli, il tuo ultimo romanzo pubblicato?
Ho impiegato solo ventitré anni. L’ho scritto e licenziato nel 2002, a proposito di pazienza. Ed è stato sicuramente non un tempo perso ma guadagnato. Avevo ventinove anni all’epoca. Oggi, 11 maggio 2025, ne compio cinquantadue, quindi arrivo alla pubblicazione che ho molto meno futuro davanti a me e non più la forza di quei ventinove anni, ma credo che quella energia si sia conservata nel testo. Scrivere un romanzo vero è una impresa atletica e ha bisogno di tutta l’energia della gioventù. Ma ho ritrovato, dopo tutti questi anni trascorsi attendendo il momento della pubblicazione, esattamente il romanzo che avevo scritto ventitré anni fa, un romanzo che vuole denunciare la mimetica presenza della mafia nella società di oggi e del futuro; ma in più mi sono accorto di aver scritto, nello stesso momento, un grande romanzo sull’amicizia. E non lo avrei capito prima di questi trascorsi ventitré anni. Dell’attesa, ne ho guadagnato consapevolezza. Questo mio libro riporta al suo lettore un racconto di mafia e di amicizia. Ma più di tutto, spero di essere riuscito nel racconto corale della vita, che segna e disegna le nostre esistenze ogni giorno.
SERENA SURIANI