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SCRITTORI: AVERE E NON AVERE ERNEST HEMINGWAY

Cultura  | 08 November 2023

A prefazione de I quarantanove racconti, 1938, Ernest Hemingway ci dice che, secondo la sua esperienza, ci sono diversi luoghi dove si scrive bene, come Madrid e Key West. Poi postilla che in altri posti, che però non nomina, invece non si scrive così bene, o forse che si valutano tali solo perché noi non si era di buona vena quando si è capitati di lì e ci si è provati a mettere giù due righe che fossero di quelle buone.

Arrivo con ottantasei anni di ritardo alla lettura di Avere e non avere, 1937, ed è un gran lusso leggere un libro di uno scrittore così importante per la prima volta come se fosse appena uscito in libreria. Hemingway iniziò a scrivere questo romanzo a Madrid nel settembre del 1933, che poi continuerà a Key West nel 1935, dove lo concluderà nel 1937, che porterà a pubblicazione il 15 ottobre dello stesso anno con l’editore Scribner’s di New York .

Avere e non avere è in realtà un libro tripartito, sezioni, come detto, scritte in tre periodi differenti e poi riunite in un unico volume che ci racconta, nell’ordine, la primavera, l’autunno e l’inverno nella vita di Harry Morgan, un ex poliziotto di Miami ripiegato a Key West e reinventatosi pescatore e comandante del proprio battello, che noleggia a facoltosi yankee in vacanza in cerca dell’ebbrezza della pesca al grande marlin; ma finisce per fare il contrabbandiere tra Key West e l’Avana.

Libro durissimo, teso, che sdoganò l’hard boiled di Dashiell Hammett e ispirò Il grande sonno (1939) di Raymond Chandler, che stimava l’opera di Hemingway su tutte.

Harry Morgan deve portare il pane a casa, è questo il suo unico pensiero, dove l’aspettano sua moglie Marie, una donna sfiorita ma ancora devota, innamorata e desiderosa del suo uomo – “[...] una donna grande e grossa, con gli occhi azzurri e i capelli ossigenati [...]” –, e le tre loro bambine, che Harry non avrebbe mai voluto – “Quelle bambine non valgono granché, vero? [...] Strano che non ci sia riuscito di avere dei maschi”.

È in questa opera che il grande scrittore americano affronta finalmente il tema della Grande depressione del ‘29 ma tenendo saldo il suo stile e salvaguardando la inconfondibile, ruvida tela che veste tutti i suoi personaggi; e senza mai concedere una sola parola al pietismo, alla misericordia, alla speranza di salvezza degli uomini, laico, tacendo fino in fondo il suo arcaico cattolicesimo, risparmiandoci qualsiasi lezioncina moralistica.

Un testo pieno di geniali stratagemmi narrativi nuovi, che davvero anticipano il cinematografo che verrà dopo, come lo stacco su uno dei personaggi secondari, Richard Gordon, scrittore del periodo, i cosiddetti scrittori proletari (Erskine Caldwell, John Steinbeck, e poi Nelson Algren e John Dos Passos, e nel personaggio messo in scena da Hemingway si ravvisano chiaramente i tratti biografici di quest’ultimo), che sta per essere mollato dalla moglie – invero è lui a descriverci Marie: “[...] che attraversava la strada di corsa, gli occhi arrossati dal pianto. Guarda quel bue, pensò. [...] E a letto come si comporterà?”

Succede al capitolo undicesimo dell’inferno di Harry Morgan che Hemingway decide, con un guizzo da purosangue, di distrarci dalle vicende del protagonista descrivendoci l’ambiente che lo circonda attraverso il passaggio di Gordon in bicicletta, che sta rientrando a casa dalla quasi ex moglie, offrendoci così uno spaccato civile di quella che era la società di ieri e, ahimè, potremmo dire di oggi persino più di allora, in questo stabilizzato mondo globale, globalizzato dall’avere e non avere, dove muovono dentro le regole dettate e accettate dell’economia del solo Capitale il ricco e il povero, un povero necessario, da fare restare nel bisogno, da tenere sempre lì, paralizzato tra il sottoproletariato e la questua.

Questo è, come sempre in Hemingway, un libro sugli umani fallimenti; inevitabilmente, sul tirare a campare in qualche modo; sul tirare a campare a ogni costo, con quei dialoghi che sei lì che ascolti, che sembra più che leggerli di sentirli, perché gli uomini, i maschi, tra loro è così che si parlano: c’è una fenomenale carrellata di fatti umani, umanissimi, al capitolo sedicesimo dell’inferno di Harry Morgan, il più lungo del romanzo, dove lo scrittore ci descrive i ricchi yacht attraccati al molo turistico di Key West, Florida, e tu sei lì che passi e guardi insieme a lui, senza invidia, freddamente, che indifferentemente volgi lo sguardo da quella parte, direbbe Cardarelli, dove più volte torna il tema del suicidio e i suoi molti modi: “[...] qualcuno ricorreva alla tradizione indigena della Colt o della Smith and Wesson [...] per porre fine al sogno americano [...] con un solo inconveniente: lo scannatoio che lasciano ai parenti da pulire.” Clarence Edmonds Hemingway, suo padre, con il quale aveva avuto sempre un rapporto burrascoso, di odio e amore, di rassomiglianze e differenze, il 6 dicembre 1928 si suicidò con un colpo di Smith and Wesson, alla vigilia di quel ‘29 che si lastricherà di numerosi suicidi per fallimento aziendale, per il crollo verticale della società capitalista in un sol colpo.

Hemingway raramente ha goduto di buona critica in vita, critici che considerava i parassiti degli scrittori: pochi hanno saputo riconoscere l’assoluta grandezza di questo autore, pochi hanno saputo osservare da vicino la dura corteccia formale che riveste tutta la sua opera e che ha cambiato per sempre il modo di scrivere, rivoluzionando il fare Letteratura. Del resto la sua scrittura era troppo all’avanguardia per poter essere compresa dai suoi contemporanei, e tuttora non pochi sono quelli che ci sbattono le corna – a proposito: nessuno quanto Hemingway ha saputo dire l’arte della tauromachia: Morte nel pomeriggio (1932), comprese le sue tante illustrazioni fotografiche, è, senza ombra di dubbio, il saggio più coraggioso e importante del ‘900 perché riflette inesorabile il rapporto tra l’uomo e la Natura. Un critico russo, Ivan Kashkeen, però, seppe cogliere appieno l’abile rozzezza e la complicata semplicità del suo scrivere, al quale Hemingway, apprezzando, rispose, però, che non poteva diventare per questo comunista perché amava troppo la libertà, nonostante tutto quello che aveva fatto per i Lealisti spagnoli durante la guerra civile.

Fernanda Pivano ricordava sempre come Hemingway fosse davvero interessato alle vite degli altri, soprattutto dei più umili, che amava ascoltare senza interrompere: raccontava, ad esempio, di quando un editore organizzò un banchetto in suo onore invitando alti notabili del luogo dove accadde che, sul finire della cena, arrivò un ragazzo a salutare l’editore e chi era con lui e andò a sedersi al bar senza fermarsi. Al che Hemingway chiese perché quel ragazzo non si fosse seduto con loro a tavola e gli fu risposto che era stato invitato solo per il caffè. Allora Hemingway si alzò dalla illustre tavolata e andò a sedersi proprio accanto a quel ragazzo.

Tutta l’opera di Ernest Hemingway ti porta dove è che sta l’uomo.

MASSIMO RIDOLFI

1. Immagine di copertina: Migrant Mother di Dorothea Lange, 1936, particolare. 

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