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POESIA: LA FIGLIA CHE NON PIANGE

Cultura  | 06 December 2023

«Come di lago fermo, come d’alba
quando nel nulla accade, assai segreta,
la verità invisibile del mondo
FRANCESCO SCARABICCHI (1951-2021)

 

Cosa lascia dietro di sé il poeta?

Il poeta, congedandosi, ci lascia il suo proprio fiato conservato nei versi che ha scritto.

La figlia che non piange quindi si fa subito libro importante perché conserva l’ultimo alito di un davvero grande poeta, Francesco Scarabicchi, il più grande lirico di questo secolo: non ho alcuna incertezza critica nell’affermarlo. Un libro di congedo, Libro di spese diverse, di prestiti, come il titolo, che arriva da Vittorio Sereni, e di restituzioni, che riempie di nomi, di formule dedicatorie (la prima sezione del libro è in memoria di Giorgio Caproni e data 1990, anno della scomparsa del poeta livornese: come tutti i grandi poeti, anche Scarabicchi ha bisogno di interlocutori per dare voce e appoggio ai suoi versi, ché i poeti autentici sono certi solo delle proprie insufficienze), di prologhi di epiloghi e di clausole, di giorni di mesi di stagioni e di anni (l’ossessione del tempo ora superata in uno spazio eterno, dalla pagina al cielo: è sempre una parola verticale e ascendente quella di Scarabicchi, di preghiera e di ascolto, tesa tra l’aria e il gelo, tutta scritta dentro una parabola a insegnamento della luce), di bianco e di neve, d’ombra d’acqua e di niente, di Lettere dall’esilio (titolazione che segna la sezione più intensa del libro), di versi salvati alla malattia (clausura forzosa che attende al varco ogni uomo, sia anche solo la vecchiaia) che, lenta e inesorabile, lo ha per sempre allontanato dalle sue magre carte, segnate con parsimonia, per non ferire inutilmente il foglio bianco: «Non c’è altro luogo, credimi, che questo, / tutto il bianco possibile, la pagina» scrive da subito a Massimo Recalcati.

E allora vi si trovano ordinate poesie di un distico (a questo poeta basta poco, gli sono sufficienti appena due versi per dirci tutto, per aprire davanti ai nostri occhi una porta che non sapevamo prima) o più estese, che, rara cosa, superano la pagina e tentano l’allungo del poemetto dove la grazia di questo autore di dire solo la parola necessaria mai sfiorisce (in realtà tutti i libri del poeta anconetano mascherano immancabilmente, nella consecutività dei singoli testi, la presenza del poemetto, basti citare i suoi libri sicuramente più importanti, Il prato bianco, 1997 l’Obliquo e poi 2017 Einaudi, e con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, 2013 liberilibri, che è il suo capolavoro, l’apice della sua parabola lirica), e piccole prose, che, da poeta autentico, Scarabicchi sapeva che non vanno mai offese e svilite con gli a capo; e  in tutto questo libro si è salvata pure una canzone, insieme a questi testi ripresi dai suoi ultimi quarant’anni di vita e di passione (sentimento predominante nell’animo del poeta negli ultimi anni nell’accezione cristiana).

Per essere grandi poeti non bisogna far niente, saranno gli altri a fare tutto quello che c’è di bisogno, vale a dire a riconoscere l’impatto particolare che quest’uomo ha avuto con la vita. E per fare ciò basta tornare al lascito, cioè all’opera, che quando proviene da un poeta Vero è di per sé inesauribile, inconsumabile direbbe Pier Paolo Pasolini, che Scarabicchi amava e cita esplicitamente nella V stanza del poemetto Più in là d’un breve passo (p. 121); e ne amava, dell’opera, soprattutto i film, e, su tutti, quel piccolo capolavoro de La ricotta (1963), di cui non mancava di citare il crudele ritratto dell’italiano che il poeta bolognese affida a Orson Welles: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.» Mentre di Scarabicchi, Pasolini avrebbe certamente amato l’asciuttezza, il verso arso, quella radice che scava la zolla farinosa in cerca di quel poco d’acqua che la salvi in superficie, perché resista al tempo, misura, vizio degli uomini.

Tra i suoi libri conservo le poche mail che ci siamo scambiati (tu a me, io a te, avrebbe detto). Davvero poche parole. Il resto tra di noi era acquisito nel non detto. Questo poeta che del suo nome ne incarnava il simbolo. L’ultima mail che gli inviai non ricevette risposta. La cosa mi sorprese non poco. Lui così puntuale, generoso, attento. Poi seppi della sua malattia e nostro tramite si fece l’amore prezioso di sua moglie Liana (a lei e ai figli Chiara e Giacomo è tutto dedicato questo libro, come il primo, si potrebbe dire, ne Il cancello, peQuod 2018, dove ha riunito i primi due libri, La porta murata del 1982 e Il viale d’inverno del 1989), alla quale inviavo saluti e versi di ritorno, direbbe lui. In un mondo avaro e cinico come quello delle lettere italiane, tenevo a fargli sapere di non averlo mai dimenticato. E non ti ho dimenticato, caro Maestro. E ho solo atteso che si facesse sufficientemente spazio tra la tua morte e questa vita prima di prendere e leggere queste ultime tue carte pubbliche, finalmente asciutte, seccate dalla lontananza.

Il suo esordio, La porta murata, si apre con un esergo preso in prestito da Umberto Saba: E fu un lutto domestico e del mondo, che scelse a segnare l’origine della sua poesia: la perdita del padre quando aveva solo dieci anni, e lo scrivere versi diventerà il suo modo per continuare a interrogarlo, come nella preziosa, gemmata prosa titolata 1962 (p. 129); poeta Scarabicchi che, oltre all’iniziatica e severa vicinanza di Franco Scataglini, ha avuto dichiarati due maestri ideali in Saba e Caproni, ma non ha mai dato eco ai lamentevoli ritmi del primo né ceduto alla rimetta del secondo, segnando così il loro chiaro superamento, e l’assassinio: questa poesia è solo sua!

Francesco Scarabicchi si congeda dal mondo e dalla vita con un’opera memorabile, che ricorda noi in lui, che ne testimonia il restituito di una intera esistenza, che ripete e annulla ogni misura di tempo.

«Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome

Quando muore un poeta è un lutto domestico e del mondo.

MASSIMO RIDOLFI

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